COVID “Tornare alla vita di prima”

 

E’ la prima volta che affronto questo tema, lo faccio malvolentieri, e tuttavia mi sembra che possa diventare un argomento di dibattito, fra chi, come me, subisce questa categoria di virus, senza poter fare altro che affidarsi agli esperti, seguire per quanto possibile le istruzioni che vengono date per proteggersi dagli effetti nocivi, e “spera” che questa spada di Damocle, che pende sulla testa di ogni abitante del pianeta venga finalmente sconfitta, o diventi meno grave, e gradualmente si possa ritornare alla vita di “prima”.

Ecco, tornare alla vita di prima…. potersi guardare in viso, senza maschere, potersi avvicinare, toccare, incontrarsi, far festa, condividere, da un’idea a un luogo, a un profumo, un sapore. Quanto, in questi anni, abbiamo rinunciato alle modalità di relazione che erano rimaste intatte per millenni, da quando gli esseri umani avevano costruito la socialità (che peraltro ci apparteneva in termini genetici proprio perché, come i nostri antenati scimmie, siamo una specie sociale).

E forse, proprio questo, fra i tanti stravolgimenti prodotti dal covid, continua ad avere sulla vita di ogni giorno di ognuno di noi un impatto pesante, resta uno dei più logoranti e sconsolanti, nella misura in cui sappiamo che “non è finita, anzi, ad ogni nuova variante siamo daccapo”.

Le relazioni sociali (che funzionano, naturalmente, cioè quelle che inducono e mantengono uno stato di relativa sicurezza e benessere di un individuo inserito in un gruppo) sono uno strumento fondamentale per rassicurarci su molte questioni di entità filosofica, oltre che economica, identitaria, e altre ancora.

Quando queste relazioni si riducono o si interrompono, qualunque sia la ragione, chi le perde salvo rari casi, ha delle sgradevoli conseguenze: l’autonomia, la capacità di affrontare da soli e risolvere le difficoltà del vivere, è sin dall’infanzia, considerato e sentito come importante obiettivo individuale.

Ma una totale indipendenza relazionale sembra di fatto irraggiungibile; anche gli eremiti, che avevano scelto la solitudine e il totale evitamento dei contatti sociali, riuscivano a sostenere la scelta solo costruendo una relazione immaginaria – e privilegiata – con un “grande spirito”, “il padrone dell’universo” (espressione ebraica per indicare la divinità) e simili.

Dobbiamo, per uscire dall’ambiguità, ( autonomia o relazioni sociali?) probabilmente pesare sia l’autonomia che la socialità in termini di vantaggi;

l’autonomia, nel senso relativo, non assoluto, è fonte di numerosi vantaggi, concreti, pratici, contribuisce a darci informazioni sulla nostra capacità e identità, sul numero di competenze e strutture operative di cui sappiamo di poter disporre, per gestire con efficacia ed efficienza la nostra vita, e magari anche quella di qualcun altro.

I vantaggi della socialità però possono potenziare quelli dell’autonomia: la stima e la considerazione positiva nei nostri confronti da parte di “altri” ( altri ritenuti e magari dimostratisi importanti per noi, non “chiunque”) rafforzano l’autostima, precisano le nostre idee identitarie, contribuiscono alla soluzione di problemi che le nostre esperienze e capacità non sanno superare, ed ancora, forniscono un fondamentale supporto di sicurezza in quanto se sappiamo di essere apprezzati, amati, accolti, ciò esorcizza una delle peggiori paure ancestrali, quella dell’abbandono.

Naturalmente la socialità non è solo rose e fiori, sappiamo bene sin da piccoli quali danni può indurre una relazione sociale disfunzionale, quali illusioni e disillusioni possono conseguire ad una relazione fintamente accogliente, supportiva, che può (o vuole, in modo innocente o meno) metterci in uno stato di dipendenza, emotiva, identitaria, affettiva, economica etc.

La socialità implica rischi, presume una fiducia di base per potere nascere ed evolversi; e se non stabilisce uno stato di equilibrio, una reciproca attenzione e rispetto dei diritti dell’altro, una relativa parità tra il dare e l’avere, un ricorso minimo alla conflittualità e al “qui comando io!” , una flessibilità reciproca e una buona capacità (reciproca) di perdonare, allora fa solo danni. E tuttavia sappiamo quanto sia difficile interrompere, archiviare una relazione disfunzionale. La genetica sociale della nostra specie che da un lato facilita l’ingresso nelle relazioni, dall’altro rende quasi sempre penosa, complicata e lenta l’uscita.

Che impatto ha il covid sulla socialità?

Inevitabilmente negativo: riattiva le paure ancestrali nei confronti dell’altro, compromette la fiducia che rappresenta l’ingrediente necessario per costruire una relazione sociale. Quella che era una tendenza spontanea in particolare verso familiari ed amici, di esprimere il piacere per l’incontro, il desiderio di infrangere le distanze, la stretta di mano, l’abbraccio, il contatto fisico, è bloccata, ovviamente dalla reciproca paura di trovarsi davanti un “untore” (come scriveva Manzoni );

cioè l’altro potrebbe essere un pericolo. e di conseguenza un incontro diventa caricato innanzitutto di precauzioni, sospetti. Di cui ci si libera parzialmente, e a fatica.

Dobbiamo trasformare i segnali di incontro sociale (come peraltro già fatto, in modi che personalmente spesso considero ridicoli) da stretta di mano a gomitata o simili – che poi a mio parere non eliminano il pericolo di contagio, che si riduce solo mantenendo le distanze ed indossando le protezioni ffp2- o sono solo la sostituzione di un rituale spontaneo con uno distorto e oltretutto inefficace?

Queste sostituzioni rituali, che sono già diventate abitudini, favoriscono a mio mio parere l’autoinganno, proprio nel senso scritto più sopra: non sono efficaci, ma qualcuno dice di sì, e il loro uso si estende, così come si estendono e continuano ad estendersi con enorme velocità di contagio termini, frasi, aggettivazioni e avverbi che costellano le conversazioni televisive: “andrà tutto bene”, splendido. magnifico, assolutamente, perfetto, “si fa fatica”, “come dire”.

Purché sembri vero, purché abbia la parvenza di novità, originalità. Il significato netto, etimologico, non importa: la intenzione reale, spesso all’insaputa di chi usa, è quella di distogliere l’attenzione dalla struttura logico/razionale del tema, e non di meno di appropriarsi di altro spazio nel dialogo, togliendolo all’interlocutore.

Anche questa è per me una distorsione che penalizza la qualità del dialogo, così come la sostituzione della stretta di mano con la gomitata penalizza la qualità del segnale originario, imbrogliando sul reale potere di difesa dal contagio.

Concludo: ci sono altri modi, meno distorti, distorcenti e “finti alla moda”, di attenuare le paure relazionali e mantenere per quanto possibile i modelli spontanei e millenari dei segnali e dei comportamenti sociali: personalmente, quando incontro un amico, familiare o cliente, porgo la mano, e subito dopo offro un gel antivirale; mi allontano, e se gli spazi , e la ventilazione garantiscono la protezione, rinuncio, con l’accordo dell’altro, così come per la stretta di mano, alla mascherina.

E’ poco? E’ solo forma? Non mi sembra, i segnali che riscontro sono di sollievo, e io stesso mi sento sollevato. Non è un ritorno al passato, ma almeno è un alleviamento della distorsione senza il rischio di compromettere la sicurezza.

Infine, è un modo (almeno per me) di contrastare la progressiva dissipazione della socialità

 

 

 

 

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