Perché mio figlio non mi dà retta? 3° puntata

Nella puntata precedente abbiamo messo in luce il fatto che la comunicazione è uno degli strumenti fondamentali nel costruire, mantenere e modificare una relazione, Comunicare non significa soltanto scambiare informazioni, implica inevitabilmente un influenzamento reciproco.

Ciò che si dice, il modo in cui lo si dice, e quello che si ascolta, lasciano traccia nell’interlocutore, in altre parole, lo influenzano. Viene provocata una reazione, anche se il tema interessa poco o nulla, anche se si è in disaccordo.

La quantità e la qualità di questa reazione dipendono dalla capacità di esprimersi con chiarezza da parte degli interlocutori, dalla competenza sugli argomenti; ma c’è almeno un altro fattore che incide sull’influenza esercitata: la premessa, quasi sempre inconscia, sulla credibilità dell’interlocutore .

Una accettazione, o all’opposto, una critica, avranno rispettivamente una influenza positiva o negativa a seconda di come viene percepito in termini di credibilità l’interlocutore.

Tutte queste azioni/reazioni avvengono per lo più in maniera automatica.

E’ questo il motivo per cui la lettrice che ha commentato per prima il post, si ritrova magari dopo anni a verificare che alcuni temi su cui aveva discusso con i figli, ricevendo feedback di disaccordo, ora risultano “incamerati”, e addirittura esposti con le stesse parole usate dalla madre.

La costruzione, nel passato, di una relazione nella quale il ruolo gerarchico del genitore è esercitato fattualmente, ha siglato la credibilità del genitore stesso, che quindi riscuote nel futuro l’influenza sulla quale ha investito.

Se quanto sopra è sperimentato e credibile, almeno in termini percentuali (l’esercitare l’autorità, e non solo l’autorevolezza, con i figli di età inferiore ai 18 anni, sembra che porti vantaggi relazionali e formativi almeno nell’80% dei casi), perché i genitori delle ultime generazioni sono così restii ad utilizzare la gerarchia?

Domanda a cui non può essere data una sola risposta, ma ne propongo qualcuna:

  1.  I genitori hanno paura che non riusciranno a tollerare la reazione negativa del figlio, che sia di sofferenza o di ribellione; si sentiranno talmente in colpa per aver prodotto una sofferenza o una rabbia, che abdicheranno all’uso dell’autorità.
  2.  I genitori hanno una posizione “sociopolitica” contraria all’esercizio della imposizione di regole e comportamenti, soprattutto quando i figli sono in tenera età. La deroga alle regole presto diventa un’abitudine, quindi riverbera nel futuro, quando cioè si vorrebbe che i figli ne rispettassero almeno alcune. Ma l’abitudine porta entrambe le parti a classificare la regola come un atto formale, a cui nessuno ottempera. Chiacchiere e distintivo, per citare un famoso film.
  3.  I genitori hanno letto qualche saggio sulla educazione dei figli, nel quale viene stabilito che i bambini non devono subire alcuna costrizione, se invece la subiscono, avranno danni gravi alla loro relazione equilibrata e serena con le persone adulte. Di conseguenza, piuttosto che comandare, ubbidiscono, lasciando che siano i figli a comandare. I figli, peraltro, non hanno alcun problema a farlo, e quindi una incoerenza formativa di questo genere viene all’attenzione di coloro che frequentano la famiglia in questione, con effetti variabili:
    consolatori, per quei genitori che utilizzano, magari con qualche dubbio, gli stessi criteri
    fortemente critici per quei genitori che invece ritengono sano ed indispensabile definire ed attivare regole e modelli di comportamento.

Resto in attesa di qualunque commento o argomentazione su quanto sopra.

2 risposte a “Perché mio figlio non mi dà retta? 3° puntata”

  1. Non penso che i genitori delle ultime generazioni siano spontaneamente e istintivamente restii a usare la gerarchia. Penso che in alcuni casi i figli, soprattutto gli adolescenti, siano in grado di sfoderare una aggressività che sicuramente coglie di sorpresa molti genitori. E allora, di fronte a grida, porte sbattute, minacce varie i papà e le mamme tentano la strada della comprensione, del dialogo, del :”vorrei spiegarti….” e a questo punto il danno, se è veramentente un danno, è fatto. Il ragazzo capisce che quella porta a suon di spallate viene giù e si comporta di conseguenza. E poi i figli sanno dove si annidano le angosce dei genitori e attuano piccoli ma efficaci ricatti. Se dici ad una ragazza “non mangiare tutti quei dolci” con ogni probabilità ti risponde “bene, allora smetto di mangiare” e la mamma si angoscia temendo chissà quale disturbo alimentare. Quello che voglio dire è che essere autoritari è uno sforzo enorme e il timore di commettere danni irreparabili è un impedimento non da poco. Io ho sempre messo in chiaro che prima di essere amica sono madre ma i miei figli non hanno mai accettato frasi del tipo “ho deciso così punto e basta”. Spiegami spiegami spiegami. A volte ho resistito, a volte – per sfinimento – ho ceduto.

    1. Alcuni (o forse parecchi) genitori delle ultime generazioni a mio modestissimo parere sono per chissà quali motivi “ideologicamente” o “sentimentalmente” contrari a stabilire un rapporto gerarchico. Ma non sto mettendo in discussione l’affetto o l’amore per i figli, quello che sto cercando di esprimere è che oltre questo dobbiamo inserire la responsabilità e le conseguenze del non tener conto di chi sia, la responsabilità. La simmetria nel rapporto interpersonale è sempre difficile da realizzare, tecnicamente o si è “one up”, o si è “one down”, cioè o si comanda, o si obbedisce. (Statisticamente parlando, s’intende)
      In tenera età le cose non cambiano, o si comanda, o si ubbidisce. E se il genitore non vuole comandare, sarà costretto ad ubbidire. La riverberazione a medio termine di una scelta di questo tipo a mio parere è pericolosa: il bambino abituato a comandare si troverà presto (all’asilo, tanto per cominciare) in ambienti in cui gli adulti comandano (mi lasci usare il verbo nella sua accezione tecnica e non emotiva, la responsabilità in quel contesto è degli adulti, i quali non possono lasciar comandare i bambini); in seguito, le cose continuano e man mano che il bambino cresce, gli adulti che hanno responsabilità formative e di controllo si aspettano che il loro ruolo gerarchico venga dato per acquisito. Se però il bambino non ha acquisito questa abitudine in famiglia, tenterà di mantenerla, e le conseguenze possiamo immaginarle senza grandi difficoltà.
      L’adolescenza, da lei citata come periodo di ribellioni, ricatti, minacce eccetera, non procede da una infanzia senza gerarchia e senza regole; è un tempo fisico e cognitivo più o meno simile nella maggior parte dei ragazzi di ambo i sessi. Ci preoccupa molto scoprire una persona così improvvisamente diversa, a volte apparentemente nemica, ma le basi di educazione messe nei periodi precedenti poi riemergono, esattamente come nel suo caso. Dubito che lei abbia ceduto, il ruolo lo ha costruito e mantenuto, in maniera flessibile e non rigida, la maniera più efficace, come dimostrano i fatti. Torno quindi alla mia ipotesi di partenza, se i genitori lasciano (per qualunque motivo) che sia il bambino a comandare, quali conseguenze negative a medio-lungo termine potremmo considerare possibili? Da dove nasce il bullismo, la svalutazione di (quasi) tutte le figure professionali ( e familiari) di riferimento, e l’emersione di “valori” regressivi, di identità costruite sulla legge della giungla? Il mio timore è che possa emergere (anche) da un crescente “senso di colpa” verso l’uso della gerarchia, delle regole, dal “dire si” perché è la soluzione più comoda, più veloce, senza pensare al futuro.

Lascia un commento